È iniziata in questi giorni la raccolta degli asparagi rosa di Cilavegna DeCo, da giovedì 15 aprile saranno disponibili in negozio al naturale e declinati in varie preparazioni gastronomiche. Come ogni anno ci prestiamo come punto d’appoggio per la commercializzazione di questo prodotto del territorio, eccellenza inserita nell’Arca del gusto, in collaborazione con il consorzio Conpac e la condotta Slow Food Vigevano e Lomellina. Ha un gusto suo tipico, un poco retró, al quale forse non siamo più abituati, intenso, minerale tendente all’amaro che a me personalmente riporta all’infanzia. E proprio come da bambina il primo piatto che mi piace cucinare alla prima comparsa di questo ortaggio è l’asparagiata. Preparo gli asparagi raschiando con il pelapatate la parte bassa ed eliminando con un taglio i primi centimetri. Li cuocio a vapore per 10 / 12 minuti, controllando la cottura poco sotto al livello della punta, dove cambiano colore. Devono essere appena teneri. Nel frattempo metto abbondante, ottimo burro di centrifuga in una padella antiaderente, lo cuocio per farlo spumeggiare, lo salo e ci rompo dentro uova quanto più fresche riesco a trovare. Lascio rapprendere il bianco dell’uovo e lo giro con una paletta senza rompere il tuorlo. Metto gli asparagi caldi in un piatto caldo con le punte tutte rivolte da un lato, appoggio sopra di esse l’uovo rigirato di nuovo, irroro con il burro e cospargo con abbondante, ottimo Parmigiano Reggiano DOP. Tengo gli asparagi per il gambo e li intingolo nel tuorlo liquido, mordo la punta e poi sfilo il possibile dal primo pezzo del gambo sotto di essa e poco più. Gli asparagi di Cilavegna danno il meglio di sé nei primi centimetri: con tre punte e poche rondelle faccio risotto per una persona. Non uso i gambi che scarto per fare il brodo vegetale, esalterei solo l’amaro degli stessi, bastano le sole punte per dare sapore a zuppe, sughi e risotto.
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Beato Matteo
Anni ’60, si avvicina la ricorrenza del Beato, protettore della città. Le giostre sono piazzate nello spazio ora occupato dal parco Parri con pozzanghere da fare invidia all’attuale laghetto se il tempo come al solito si è guastato dopo aver lasciato festeggiare l’oca ai mortaresi: non importa che tempo abbia fatto prima, dopo il Beato Matteo sui letti compaiono gioco forza le coperte di lana.
Ogni famiglia si prepara a ricevere ed ospitare amici e parenti di fuori soprattutto, le tavolate sono numerose, le incombenze domestiche altrettanto. Bisogna “vestirsi di nuovo” per la messa della domenica, bisogna preparare per le persone che si sono invitate, siamo in pieno boom economico: la tavola rispecchia l’abbondanza da poco assaporata.
Per un pranzo tipo dobbiamo prevedere: antipasto con ricco vassoio personale riempito con cura dal salumiere di fiducia con tutte le varietà di salumi cotti e crudi, salame sotto grasso, carciofini, chiodini sott’olio, acciughe e sardine, insalata russa, antipasto rosso (vedi ricetta) e patè in gelatina (Milano insegna). Segue la “rustida” che ha fatto da base per il successivo risotto: carne di maiale a fette sottili con salsiccia e fegato sempre di maiale con cipolla e pomodoro. Poi risotto appunto cotto nel sugo della medesima, poi brodo prodotto per il risotto magari arricchito da ravioli (più frequentemente riservati al pasto serale o del lunedì), lesso e gallina ripiena, poi gli arrosti, vitello o anche fagiano per le famiglie dei cacciatori, brasato e almeno due contorni uno cotto e uno crudo, bagnetto profumato di estate e del proprio orto.
Come formaggio la tachella con la mostarda, comprate entrambe “sciolte” sempre dal salumiere (il supermercato è di là da venire). Dolce finale con il cabaret di paste comprato all’uscita della messa, col torrone rigorosamente Sebaste Gallo d’Alba e la torta fatta in casa (la “varulà o marmo dolce o bianca e nera per intenderci). Il vino è quello di tutti i giorni; concessione finale di vermouth da meditazione.
Menù certo affascinante ma forse improponibile ai nostri giorni, a meno di non farne una rivisitazione drastica in termini di quantità di grassi soprattutto. Certo è che poco di questa tradizione è rimasto sulle tavole dei vigevanesi di oggi. Chi ha intorno ai trent’anni e produce da sè ravioli fatti in casa? Chi è in grado di fare sempre in casa un’insalata russa? Intendo manufacendo anche la maionese? Si acquistano già pronte persino le verdure per i contorni, figuriamoci gli arrosti!
Passando attraverso gli anni settanta con le varianti vegetariane, gli anni ottanta con la celebrazione della cucina alternativa, gli anni novanta con il culto del tutto pronto, le tradizioni culinarie si sono come dileguate. Oggi un menù tipo rifugge certamente i salumi, troppo demonizzati e troppo presenti sulle tavole in forme snaturate come i preaffettati in busta hanno più ogni altra cosa fatto il loro tempo per la maggior parte delle persone, anche se andrebbero rivalutati nelle loro espressioni migliori, pretendendo sempre una qualità eccelsa che c’è e vale la pena di cercare e di pagare il giusto.
L’antipasto potrebbe quindi essere rappresentato da una torta salata naturalmente prodotta con pasta sfoglia surgelata o al massimo conservata in atmosfera modificata, manco a pensare di fare una semplice crosta di farina, acqua e olio extra vergine di oliva, migliore, più economica e nutrizionalmente perfetta oltre che filologicamente più appropriata. Seguita da un primo al forno, potrebbe essere una lasagna classicamente prodotta se siamo fortunati da un negozio di pasta fresca o da qualche artigiano locale, o dei cannelloni o delle crepes, suggestione anni ottanta che dura a morire.
Come secondo, un arrosto arrotolato attinto dal bancone di un supermercato già legato con gli aromi inclusi (alzi la mano chi sa legare un arrosto) oppure per i più abbienti un volatile ripieno già arrostito dalla polleria. In tempi di HACCP la mostarda sfusa ha il sapore dell’alcol dei tempi del proibizionismo e la tachella si vende anche nei negozi solo confezionata in squadrati cubetti da 100 o 250 grammi, 500 grammi nei supermercati alla faccia dei single.
Sopravvive il banco del torrone alla fiera quasi immutato in quarant’anni, possiamo ancora tuffarci in quel sapore per rivivere un po’ d’antan. Se sapete fare una torta in casa – senza ricorrere alla magia 9 torte – fatela per piacere, non è poi così proibitiva, se anche saltate la messa potete acquistare i pasticcini senza neanche fare la coda che inevitabilmente si formava allora, riscattate con la scelta di vini adeguata alle vostre nuove competenze enologiche il tenore del vostro pranzo e lasciate perdere il vermouth a favore di un bicchierino di marsala metodo soleras che accompagnerà degnamente il vostro dolce.
Spero che questa mia provocazione induca più d’uno a mettere mano al menù della festa del Beato Matteo, che lo programmi e lo progetti con cura, con un occhio alla tradizione ed uno alla leggerezza, con l’accortezza di scegliere solo materie prime di altissima e riconosciuta qualità, pensando che comunque chi più spende meno spende, nulla è troppo per il nostro benessere, siamo quello che mangiamo, vogliamo essere una torta salata dal ripieno schizofrenico o una fetta di culatello?
Antipasto rosso
- 300 g di giardiniera di verdure miste ridotta a cubetti
- 200 g tonno sott’olio
- 2 cucchiai di doppio concentrato di pomodoro
- 1 bustina di droghe miste (tipo Saporita Bertolini)
- Olio extra vergine di oliva quanto basta
Mescolare tutti gli ingredienti il giorno prima e gustare in accompagnamento ai salumi.
Cipolla rossa di Breme
La Dolcissima, in dialetto sigula, simbolo di Breme e vanto della Lomellina, è una cipolla rossa che giunge a maturazione nel mese di giugno. La produzione è limitata, tanto che in alcune annate, complici le sagre ad essa dedicate, si esaurisce prima del suo tempo di conservazione, che può arrivare al primo autunno. Insignita della DeCo come prodotto di pregio del comune di Breme, già inserita nell’Arca del Gusto di Slow Food, a Expo 2015 faceva parte delle coltivazioni dell’orto del padiglione di Slow Food e da giugno 2020 è diventata Presidio Slow Food.
Personalmente il mio rapporto con aglio e cipolla è sempre stato piuttosto distaccato, fino all’età adulta non consumavo cipolla cruda in insalata, per esempio. La differenza la fece proprio la cipolla di Breme: quando la definirono “dolcissima” non era tanto per dire, possiamo davvero considerare questa caratteristica come dominante il prodotto. Pertanto cruda dà il meglio di sè, in insalate simbolo della stagione che rappresenta, semplicemente sola o abbinata a pomodori, con altri ortaggi di stagione come cetrioli o peperoni, con alimenti sapidi come tonno o acciughe, nel gazpacho, nella panzanella, con vari tipi di fagioli, dal borlotto – magari varietà Vigevano di Gambolò – al cannellino, al bianco di Spagna e via di questo passo.
Avete una ricetta che richiede la cipolla cruda? Potete con successo utilizzare la dolcissima di Breme per un risultato organolettico eccellente e una leggerezza assicurata. Anche le ricette in cui la cipolla viene cotta diventano particolari e digeribili con la cipolla rossa di Breme, a partire da una semplice focaccia, una schiacciata, una farinata, una burtleina (al posto del bavaron), per approdare a una zuppa gratinata, a delle cipolle ripiene o al forno, a torte salate, a tatin insolite, in accompagnamento al baccalà, fritte in pastella come calamari vegetali, in agrodolce negli antipasti e perfino in confetture, semplici o con agrumi o con aceto balsamico di Modena; la pasticceria Dolce Vita di Danilo Scansetti ne fa una torta particolare.
Altro elemento caratterizzante la cipolla di Breme sono le grandi dimensioni: è facile trovare esemplari oltre i 600 grammi. La cipolla si presenta appiattita ai poli, di colore rosso di una tonalità poco accesa e all’interno presenta cerchi carnosi, spesso con doppio centro.
Questa settimana vogliamo celebrare la Dolcissima con un menù totalmente dedicato: trovate tutte le informazioni nella descrizione dell’evento facebook organizzato insieme a Slow Food Vigevano e Lomellina.