È iniziata in questi giorni la raccolta degli asparagi rosa di Cilavegna DeCo, da giovedì 15 aprile saranno disponibili in negozio al naturale e declinati in varie preparazioni gastronomiche. Come ogni anno ci prestiamo come punto d’appoggio per la commercializzazione di questo prodotto del territorio, eccellenza inserita nell’Arca del gusto, in collaborazione con il consorzio Conpac e la condotta Slow Food Vigevano e Lomellina. Ha un gusto suo tipico, un poco retró, al quale forse non siamo più abituati, intenso, minerale tendente all’amaro che a me personalmente riporta all’infanzia. E proprio come da bambina il primo piatto che mi piace cucinare alla prima comparsa di questo ortaggio è l’asparagiata. Preparo gli asparagi raschiando con il pelapatate la parte bassa ed eliminando con un taglio i primi centimetri. Li cuocio a vapore per 10 / 12 minuti, controllando la cottura poco sotto al livello della punta, dove cambiano colore. Devono essere appena teneri. Nel frattempo metto abbondante, ottimo burro di centrifuga in una padella antiaderente, lo cuocio per farlo spumeggiare, lo salo e ci rompo dentro uova quanto più fresche riesco a trovare. Lascio rapprendere il bianco dell’uovo e lo giro con una paletta senza rompere il tuorlo. Metto gli asparagi caldi in un piatto caldo con le punte tutte rivolte da un lato, appoggio sopra di esse l’uovo rigirato di nuovo, irroro con il burro e cospargo con abbondante, ottimo Parmigiano Reggiano DOP. Tengo gli asparagi per il gambo e li intingolo nel tuorlo liquido, mordo la punta e poi sfilo il possibile dal primo pezzo del gambo sotto di essa e poco più. Gli asparagi di Cilavegna danno il meglio di sé nei primi centimetri: con tre punte e poche rondelle faccio risotto per una persona. Non uso i gambi che scarto per fare il brodo vegetale, esalterei solo l’amaro degli stessi, bastano le sole punte per dare sapore a zuppe, sughi e risotto.
Categoria: Materie prime
Il riso
Materia prima versatile, il riso, nelle sue diverse tipologie, è nel nostro DNA di lomellini. Parte integrante anche del nostro paesaggio, quel “mare a quadretti” che si specchia nel nostro cielo di Lombardia “così bello quando è bello” di manzoniana memoria. E Manzoni ha avuto modo sicuramente di ammirare lo spettacolo delle risaie, avendo soggiornato a Cassolnovo, dove, nella villa in cui fu ospite, gli è ancora tributata una stanza.
Principe di tutti i menù lomellini, casalinghi o professionali, non c’è ricorrenza o stagione che non abbia il suo risotto. Per non parlare delle minestre, minestrine e minestrone. È materia anche per dolci, anche se più conosciuti di quelli lomellini sono i pasticcini di riso toscani o le torte di riso emiliane.
Tipico vigevanese è un piatto né dolce né salato, che ricorda i porridge anglosassoni, il ris e latt. Ogni famiglia aveva la sua versione: la differenza stava nel pizzico di sale o di zucchero o di cannella, nella consistenza finale più o meno brodosa, nell’aggiunta di acqua al latte; variazioni che paiono banali ma che cambiano il profilo organolettico di questo comfort food prettamente serale.
Di riso si è detto e scritto parecchio, mi preme ricordare la manifestazione che si svolse a Vigevano per qualche edizione, curata da Slow Food, Rice, esperimento riuscito di mettere il riso al centro di eventi e dibattiti, non tralasciando la parte gastronomica, enoica e artistica.
Quale riso?
Fondamentale per imparare a cucinare propriamente questa risorsa è conoscerne le principali categorie, per come si comportano in cottura e per come influenzano il risultato finale. Sarebbe opportuno acquistare il riso in almeno due tipologie, partendo dal presupposto che qui vi parlo delle varietà occidentali che derivano dall’Oryza sativa subsp. japonica.
Merceologicamente, il nostro riso è suddiviso in quattro categorie in base al suo aspetto fisico, alla forma cioè dei suoi chicchi. Abbiamo riso comune, semifino, fino, superfino. Viene poi commercializzato con il nome varietale: Originario, Rosa Marchetti, Ribe, Carnaroli per esempio. Non è che non possiate usare un riso qualunque di questi per fare qualsiasi ricetta, ma ovviamente il risultato cambierà.
Mio papà, lomellino delle cascine, utilizzava l’originario, che è un riso comune, ricco di amido, per fare il risotto “della domenica” con salsiccia e zafferano. Era un risotto “fisso” il cucchiaio ci stava in piedi, ma bello sgranato e croccante, con la crosticina nella pentola “della termica”.
Da Chez Nadi il risotto cambia ogni settimana, il riso però è in prevalenza, salvo puntate sporadiche su altre varietà o produttori, il Carnaroli da Carnaroli del Pavese dell’azienda agricola Domenico e Giuseppe Carnevale Giampaolo.
Ha dimostrato nel tempo una costanza qualitativa e una resa organolettica eccellenti, con ottima tenuta in cottura e sapore pieno ma delicato che lo rende adatto a tutti gli accostamenti, dai classici agli inusuali.
È difficile in Lomellina consigliare un produttore, ognuno ha un riferimento per conoscenza diretta o magari parentela. Se non è il vostro caso, lasciate perdere il riso generico sullo scaffale del supermercato: prendetevi il tempo per visitare qualche mercatino o qualche cascina, cucinate, assaggiate e giudicate.
Cercate di capire i metodi di produzione, l’etica del produttore, visitate le risaie nelle diverse stagioni, privilegiate le coltivazioni etiche e sostenibili.
Cucinate riso più volte alla settimana, provatelo in diverse cotture valutando resa e consistenze. Abbinatelo per tradizione e sperimentate: il risotto può essere una base neutra che esalta ingredienti diversi.
Zucca Bertagnina di Dorno
La zucca Bertagnina di Dorno è una DeCo presente anche nell’arca dei prodotti Slow Food.
I terreni di questa zona sono particolarmente vocati alla produzione di questo ortaggio e la varietà è ben riconoscibile per la caratteristica forma a “berretto”.
Presente da sempre negli orti casalinghi, deve la sua sopravvivenza all’ostinazione di privati che ne possedevano i semi. Dal 2004 è oggetto di un progetto di recupero che ha portato alla costituzione di un consorzio. Annualmente é protagonista di una sagra giunta alla 16 edizione nel 2019. È stata inserita nel paniere Pavese e nell’arca dei prodotti Slow Food.
Versatile e nutriente, si presta alla realizzazione di ricette dolci e salate dalle più tradizionali alle più innovative. È materia prima per risotti (sola o in abbinamento ad altri vegetali quali i funghi, ai formaggi, alle erbe aromatiche o alle spezie), creme, vellutate, zuppe, tortelli, gnocchi, malfatti, torte dolci e salate.
Si possono anche preparare composte dolci o salate, lievitati da forno, pane e birra.
La stagionalità della Zucca Bertagnina di Dorno va da settembre a dicembre come tradizione vuole. Tuttavia, gli esemplari migliori si trovano a inizio stagione e hanno pezzatura medio grande. Sceglietele pesanti, col picciolo grande, saldo, ben asciutto e facile da far “saltare” con un colpo di mano.
La zucca va poi tagliata e privata dei semi e della polpa morbida che li avvolge. I semi possono essere consumati tostati in forno e salati, da sgranocchiare come snack. Privati della buccia esterna si possono aggiungere come guarnizione a numerose ricette.
Per preparare passati e zuppe o per farla al forno si può lasciare la buccia avendo cura di lavarla bene, oppure va pelata. Per farlo più facilmente si può farla girare nel microonde a pezzi per un paio di minuti alla massima potenza. Una volta ammorbidita l’operazione risulterà più agevole.
Conservate le vostre zucche intere in un luogo asciutto e buio. Una volta tagliate, potete conservare la parte che non utilizzate immediatamente in frigorifero, proteggendo il taglio. Attenzione ad utilizzarla entro due o tre giorni. Se pensate di non riuscire entro questi tempi, potete prepararla tutta, anche se grossa. Con o senza buccia, come preferite, tagliatela a pezzetti o a fette. Fate poi congelare in freezer distesa su vassoi protetti da carta da forno. Una volta congelata potrete raggrupparla in sacchetti appositi e tenerla nel vostro freezer. Al bisogno, senza scongelarla, avrete a disposizione la vostra zucca già pronta.
Potete anche cucinarla con un goccio d’olio, sale e pepe, usando il coperchio per mantenerla umida, per una ventina di minuti. Quando sarà morbida alla penetrazione dei rebbi della forchetta spegnete il fuoco e passatela con il frullatore ad immersione o schiacciatela con lo schiacciapatate.
La purè ottenuta potrà essere base per diverse ricette e potrete anche congelarne a porzioni per un utilizzo futuro. Con questo lavoro preventivo sarà facile cucinare una crema o dei malfatti o una torta (salata o dolce).
Per il risotto preferisco utilizzare dei cubetti crudi di zucca da aggiungere interi al soffritto di scalogno (potete qui utilizzare i vostri cubetti congelati), proseguo poi con la tostatura del riso. Bagno con brodo vegetale, due mestoli per ogni etto di riso. Lascio sobbollire mescolando ogni tanto ed aggiungendo brodo se si asciuga troppo. E’ un risotto da tenere morbido, all’onda, mantecandolo fuori dal fuoco con burro di ottima qualità e Parmigiano Reggiano di buona stagionatura.
Pomodori verdi
Anche i pomodori verdi hanno le loro applicazioni in cucina, vale la pena coltivarne qualche pianta in giardino per avere la materia prima per la preparazione di una gustosa e inusuale confettura, da accompagnare a lessi e formaggi. Se lasciato giungere a maturazione piena, il pomodoro rosso può invece essere utilizzato ad esempio in insalata o nella preparazione di sughi. Ecco qualche ricetta per valorizzarli.
Confettura di pomodoro verde alla vaniglia
- Prendete 1 kg di pomodori verdi e riduceteli a striscioline eliminando i semi e l’acqua di vegetazione, lasciateli in un colino a perdere ulteriore acqua per un paio d’ore
- Aggiungete ai pomodori messi in pentola 400 g di zucchero, una bacca di vaniglia (anche solo la parte esterna di una bacca di cui avete già utilizzato i semini) e il succo di mezzo limone
- Mettete sul fornello a fuoco lento, cuocendo fino alla consistenza sciropposa della confettura. Per valutare lo stato della preparazione, potete eseguire la prova della goccia: ponete una goccia della confettura su un piatto freddo, inclinatelo e stimate la viscosità in base alla velocità di scorrimento
- Invasate in barattoli puliti, asciutti e sterilizzati in forno a 100 °C per mezz’ora, avendo cura di lasciare un dito d’aria in cima. Completate con etichetta riportante la data di preparazione e conservate in frigorifero. Vi consiglio di fare piccoli vasi (con questa dose, almeno 5) per consumarli a breve dopo l’apertura.
Altri spunti
Se volete cimentarvi ulteriormente, avendo a disposizione altri pomodori verdi, potete farne una conserva salata preparandoli allo stesso modo, scottandoli in aceto a bollore con sale e aromi (basilico per esempio) e invasandoli dopo averli fatti raffreddare su un canovaccio con buon olio extra vergine di oliva. Così preparati, potrete gustarli in accompagnamento a salumi.
Un altro modo di gustare i pomodori verdi, come insegna un famoso film, è di friggerli. Tagliate in questo caso rondelle spesse mezzo centimetro, asciugatele e passatele nella farina, poi in uovo sbattuto, poi nel pangrattato e friggetele in padella con olio extra vergine di oliva fino a doratura.
Provate anche a farcire le rondelle a due a due con gorgonzola e procedete come sopra, è un pochino più impegnativa come ricetta ma vi assicuro che vale la pena cimentarsi, era una ricetta tanto gradita al mio babbo, che in stagione non si lasciava scappare la possibilità di eseguire.
I nostri pomodori
Nel piccolo giardino di casa, nel corso degli anni, l’orto ha strappato terreno al cemento e alle poche piante originarie si sono aggiunte erbe aromatiche, frutti di bosco, fiori e, nel periodo estivo, pomodori. Non una vera e propria produzione, dati gli spazi ristretti e inospitali, quanto un divertimento per il piacere di vedere le piantine crescere, fiorire e dare i loro frutti.
Arrivati dalle Americhe meno di 600 anni fa e inizialmente coltivati soltanto a scopo ornamentale, i pomodori sono ormai diventati il simbolo della cucina mediterranea e in particolare un pilastro di quella italiana. Dalla semplice salsa di pomodoro, passando per l’insalata caprese, le ricette regionali (si pensi alla pappa o la panzanella toscane), i sughi rossi, fino a sperimentazioni come gelatine, sorbetti o confit.
Il piacere di gustare i pomodori caldi di sole in insalata o su una bruschetta ripaga generosamente del piccolo impegno preso in primavera. Vale la pena in stagione, oltre ovviamente a consumarli freschi, di prepararne una salsa da conservare per il resto dell’anno: indicativamente, per una porzione di salsa occorrono 250 g di pomodoro crudo.
Non è necessario cimentarsi nella produzione di quintali di pomodoro in una sola volta, potete agevolmente durante l’estate fate la vostra salsa lavorando quattro, massimo cinque chilogrammi per volta. Oltre ad avere un ottimo sugo fresco da gustare al momento, produrrete così qualche vasetto in più per le vostre ricette invernali.
La salsa
Tagliate i pomodori a metà e privateli della parte bianca all’apice, sciacciateli per eliminare in parte l’acqua interna e i semini e metteteli in pentola con sedano, carota, cipolla e basilico. Mettete sul fuoco condendo con olio extra vergine di oliva, sale grosso e un pizzico di pepe. Portate ad ebollizione e cuocete per almeno un’ora, mescolando per evitare che attacchi sul fondo della pentola. Se i pomodori fanno tanta acqua proseguite la cottura per farla evaporare. Passate al passaverdura ed ecco pronta la base del vostro sugo di pomodoro, basterà ripassarlo in padella con oevo aromatizzato con uno spicchio di aglio, peperoncino, se gradito, e un poco di basilico fresco.
L’eccedenza potrà essere conservata in barattoli sterilizzati, con l’aggiunta di una foglia di basilico per ognuno, fatti poi bollire per venti minuti per una migliore durata nel tempo. Potrete così conservarli in luogo buio, fresco ed asciutto per l’inverno.
Ripetendo questa micro produzione più volte durante l’estate, variando e miscelando le tipologie di pomodoro che riuscirete a reperire, creerete una scorta variegata di basi per le vostre ricette invernali. Nell’attesa che ritorni la stagione, avrete a disposizione il sapore e il colore dell’estate.
Curiosità
Avrete sentito dire almeno una volta che “il pomodoro è un frutto, non una verdura”. Come molte bufale virali, questa frase non è completamente falsa, ma contiene una mezza verità: come spiega in questo video il chimico e divulgatore Dario Bressanini, è vero che botanicamente quello che mangiamo della pianta di pomodori è il frutto. Allo stesso modo usiamo in cucina il frutto di zucche e zucchine, le radici delle carote o i semi dei fagioli. La nozione di verdura non è però botanica: è una nozione culturale, basata sulle nostre abitudini alimentari, e per questo varie parti di varie piante possono tutte rientrare nella categoria di verdura se sono accomunate da caratteristiche organolettiche, abitudini culinarie e percezione culturale.
Cipolla rossa di Breme
La Dolcissima, in dialetto sigula, simbolo di Breme e vanto della Lomellina, è una cipolla rossa che giunge a maturazione nel mese di giugno. La produzione è limitata, tanto che in alcune annate, complici le sagre ad essa dedicate, si esaurisce prima del suo tempo di conservazione, che può arrivare al primo autunno. Insignita della DeCo come prodotto di pregio del comune di Breme, già inserita nell’Arca del Gusto di Slow Food, a Expo 2015 faceva parte delle coltivazioni dell’orto del padiglione di Slow Food e da giugno 2020 è diventata Presidio Slow Food.
Personalmente il mio rapporto con aglio e cipolla è sempre stato piuttosto distaccato, fino all’età adulta non consumavo cipolla cruda in insalata, per esempio. La differenza la fece proprio la cipolla di Breme: quando la definirono “dolcissima” non era tanto per dire, possiamo davvero considerare questa caratteristica come dominante il prodotto. Pertanto cruda dà il meglio di sè, in insalate simbolo della stagione che rappresenta, semplicemente sola o abbinata a pomodori, con altri ortaggi di stagione come cetrioli o peperoni, con alimenti sapidi come tonno o acciughe, nel gazpacho, nella panzanella, con vari tipi di fagioli, dal borlotto – magari varietà Vigevano di Gambolò – al cannellino, al bianco di Spagna e via di questo passo.
Avete una ricetta che richiede la cipolla cruda? Potete con successo utilizzare la dolcissima di Breme per un risultato organolettico eccellente e una leggerezza assicurata. Anche le ricette in cui la cipolla viene cotta diventano particolari e digeribili con la cipolla rossa di Breme, a partire da una semplice focaccia, una schiacciata, una farinata, una burtleina (al posto del bavaron), per approdare a una zuppa gratinata, a delle cipolle ripiene o al forno, a torte salate, a tatin insolite, in accompagnamento al baccalà, fritte in pastella come calamari vegetali, in agrodolce negli antipasti e perfino in confetture, semplici o con agrumi o con aceto balsamico di Modena; la pasticceria Dolce Vita di Danilo Scansetti ne fa una torta particolare.
Altro elemento caratterizzante la cipolla di Breme sono le grandi dimensioni: è facile trovare esemplari oltre i 600 grammi. La cipolla si presenta appiattita ai poli, di colore rosso di una tonalità poco accesa e all’interno presenta cerchi carnosi, spesso con doppio centro.
Questa settimana vogliamo celebrare la Dolcissima con un menù totalmente dedicato: trovate tutte le informazioni nella descrizione dell’evento facebook organizzato insieme a Slow Food Vigevano e Lomellina.
Cioccolato
Di origini antichissime da brodo indiano xoco-atl, acqua amara che rinfrancava Montezuma prima, dopo e durante le visite alle sue mogli, attraverso l’intuito dei Gesuiti che eliminarono il peperoncino della ricetta originale per privilegiare gli aromi dolci della vaniglia e della cannella aggiungendo vieppiù zucchero alla bevanda, passando per il favore dei coloni spagnoli che ottennero dal papa la dispensa al consumo durante i frequenti digiuni imposti dalla religione cristiana e con l’opera di entusiastica diffusione di ben due principesse: Anna d’Austria, sposa di Luigi XIII, e Maria Teresa d’Austria, sposa di Luigi XIV. propagò nella forma molto simile alla moderna in tutto il mondo con mode e modi differenti. Mentre in Francia il consumo della cioccolata era privilegio della nobiltà, molto apprezzato per le sue qualità corroboranti e propedeutico ai piaceri dell’alcova, in Inghilterra con la nascita delle Chocolate House si diffuse sì fra gli aristocratici ma anche fra la ricca borghesia e rivaleggiò con l’altra bevanda di moda dell’epoca: il caffè. Ci volle un milanese per mettere d’accordo gli amanti delle due: Domenico Barbaja, proprietario di caffè e impresario di teatro lirico, gestore del Teatro Carcano che inventò la Barbajada, cioccolata preparata diluendo il cacao in polvere col caffè oltre che col latte. Mentre i francesi continuano ad abbinare la cioccolata in tazza ai piaceri della carne, gli inglesi già la sgranocchiano in bastonicini. Nella seconda metà del settecento, dopo essere stato elogiato anche dall’Encicopedie di Diderot e d’Alembert diviene prodotto sempre più industriale e quindi più popolare per l’abbattimento dei costi di produzione, lavorato con macchine idrauliche e motore di vere e proprie aziende come la Compagnie Française des Chocolats e des Thès. È del 1753 la denominazione latina ufficiale del cacao Theobroma Cacao linneaus (cibo degli dei) Nel secolo successivo la diffusione del cioccolato in tutte le sue forme continua e si consolida. Nascono nell’ottocento imprese famose ancora ai nostri giorni Cadbury a Birmingham, Suchard a Serriers Svizzera, Van Houten (chimico che inventò il metodo di estrazione del burro di cacao e un metodo per alcalinizzare le polveri di cacao) nei Paesi Bassi, Pierre Paul Caffarel a Torino, Carles Barry gallese a Meulan in Francia, Jean Neuhaus fonda la futura Cote d’Or, Sprungli-Lindt apre il primo laboratorio in Svizzera. Sono di questo secolo l’invenzione della Sachertorte(1832), del gianduia(1861), del cioccolato al latte (1875) opera di Daniel Peter che utilizzò il latte condensato in polvere del suo amico chimico Henry Nestlè.. Nel novecento nonostante due guerre mondiali la produzione del cioccolato non si ferma, anzi diventa sostentamento indispensabile per i soldati USA che grazie a Hershey possono contare su di un cioccolato in grado di resistere anche ai climi tropicali e per la popolazione civile dell’Inghilterra che ebbe razioni di dolciumi e cioccolato per combattere la penuria della seconda guerra mondiale. Ai giorni nostri nonostante lo sbandamento dei legislatori della CEE che hanno di fatto dato via libera all’aggiunta di grassi diversi dal burro di cacao nel cioccolato sebbene nell’esigua percentuale massima del 5% la tendenza sembra essere quella della qualità. È sempre più facile trovare anche nei prodotti industriali cioccolato con alte percentuali di cacao, monocrus di cioccolato particolari e prodotti sempre più di pregio; si tengono corsi e seminari sul cioccolato, si discute del suo abbinamento con vini e distillati, gli estimatori della vera Sachertorte possono procurarsela da qualsiasi parte del mondo ordinandola al sito ufficiale della stessa. Sarà per i suoi circa 400 aromi o per i suoi circa 300 composti chimici, per l’insieme di emozioni che il cioccolato suscita in noi, per le suggestioni culturali e psicologiche spesso legate alla nostra infanzia, per la sostanze psicoattive che lo rendono efficace antidepressivo, per le sostanze stimolanti che favoriscono le capacità intellettuali e cognitive, per la presenza di neurotrasmettittori che normalmente vengono rilasciati da nostro corpo quando si prova l’innamoramento, per la presenza di magnesio stabilizzante dell’umore e prezioso per le donne soprattutto, o per una sostanza recentemente individuata curiosamente assimilabile ai cannabinoidi come hashish e marijuana o per tutte queste cose insieme e per l’effetto di favorire il rilascio della serotonina altro agente responsabile della tranquillità e della stabilità dell’umore, mentre i grassi in esso contenuti stimolano la produzione di endorfine che danno vigore ed euforia alla mente, sta di fatto che il cioccolato è passato attraverso i secoli riscuotendo nelle sue svariate forme consensi pressoché unanimi e sembra a tutt’oggi saldamente proiettato nel futuro attraverso l’opera di produttori sia industriali che artigianali uniti nella ricerca della qualità: si pensi alla Lindt, alla Callebaut, alla Valrhona, e agli italiani Amedei, a Domori.
Asparagi
Ortaggio primaverile per eccellenza, gli asparagi compaiono sul mercato verso la fine di marzo per rimanervi fino a tutto giugno. L’asparago pianta è un rizoma che vegeta sottoterra, l’asparago come noi lo conosciamo cioè la parte commestibile è scientificamente detta turrione. È un germoglio che cresce sulla “zampa” sotterranea e spunta dal terreno a maturazione, va raccolto entro pochissimo tempo pena la perdita di sapore e il raggiungimento di una consistenza troppo “legnosa” che ne compromette la delicatezza. Si scartano i turrioni con diametro inferiore agli 8mm e quelli ricurvi. La pianta è originaria delle regioni del mediterraneo orientale e attualmente è diffuso in tutta l’Europa meridionale, in Italia le coltivazioni sono preminentemente in Emilia Romagna, Veneto e Piemonte.
Qualunque preparazione a base di asparagi è tanto migliore quanto più riusciamo ad acquistare esemplari freschi, raccolti da poco, senza ammaccature o spaccature, con la punta, che è formata da tante piccole squamette, ben serrata e turgida. La percezione di una seppur minima apertura denota poca freschezza, se poi, in seguito al malcostume di bagnarli per tenerli freschi ed aumentarne il peso le punte arrivano ad avere un profumo poco gradevole, abbandoniamoli al loro destino senza rimpianti. Sconsigliato l’acquisto fuori stagione, il prezzo sarà troppo elevato e come ho detto avremo prodotti di serra o di importazione, deprecabile l’utilizzo del surgelato, la consistenza particolare e unica del fresco non ha paragoni neanche nelle tipologie maggiormente predisposte a tale pratica, neanche da considerare la possibilità di avvalersi degli inscatolati, vale quanto di peggio possiamo pensare per gusto e sensazioni tattili. Posto di avere messo le mani su di una meritevole materia prima almeno per i primi assaggi di stagione scegliamo preparazioni semplici, se sono buoni non hanno bisogno di granché perché possiamo apprezzarli al meglio, li cuociamo semplicemente al vapore dopo aver raschiato i gambi ed asportato la parte più legnosa. Cuociamoli poco! È una tristezza infinita prima vedere poi degustare esemplari mollicci ed acquosi rovinati da una cottura irrispettosa della loro tenera natura, se non possediamo l’attrezzo per la cottura al vapore e dobbiamo optare per la lessatura facciamo in modo di non immergere le punte in acqua e riutilizziamo l’acqua di cottura per produrre un passato o per cuocere un risotto. Possiamo gustarli già così soli, anche senza sale, l’abbondante presenza di sali minerali non ce ne farà sentire la mancanza, condiamoli con un filo di olio extra vergine di oliva o ripassiamoli in una noce di burro, ottimo accompagnamento per delle uova al tegamino o anche per del formaggio fresco e cremoso, io prediligo quello di capra ma si sposano ottimamente con una mozzarella di bufala o con bocconcini di pollo o coniglio.