Ricordo mia nonna che, per fare la burtleina, impastava un pugno di farina con un uovo, un pizzico di sale e del latte fino ad ottenere una pastella fluida. Metteva sul fornello una padella con olio e vi colava dentro quest’impasto che si distribuiva uniformemente da solo coprendone l’intero fondo, friggendo ai lati fino a imbiondire. A quel punto la girava, aiutandosi con due forchette, la faceva dorare anche all’altro lato, e pochi minuti dopo la scolava dall’unto in eccesso e la metteva in tavola. Per accompagnare fette di coppa, tagliate con la “coltella” o il formaggio che lei stessa preparava, quello meno stagionato, più morbido.
Da piccina ho trascorso un intero inverno ospite dei miei nonni materni a Campostrino di Rustigazzo, in Val d’Arda, provincia di Piacenza. Ricordo che la nonna panificava ogni quindici giorni, producendo una decina di “micche” alla volta. Il giorno in cui le faceva si mangiava il “chisolino”, una pagnotta che appiattiva e cuoceva sul davanti del forno. Quando lo apriva la prima volta per controllare e girare il pane, sfornava quella specie di focaccia che, essendo più bassa, era già cotta ed era la prima ad essere gustata. Le micche venivano conservate in un cesto di vimini, protette da una tovaglia e consumate giorno per giorno, via via sempre più dure.
Quando si avvicinava la data della successiva panificazione, il pane si poteva mangiare solo a quadrotti nel caffelatte della colazione, oppure a fette, bagnato nell’acqua e abbrustolito sulla piastra della stufa a legna o ancora nel brodo, bollito fino a diventare una pappa. In alternativa, la nonna preparava la burtleina, che sostituiva appunto il pane.
Spesso la ripropongo in accompagnamento a salumi piacentini o formaggio fresco tipo robiola o crescenza; ha il sapore dell’infanzia, delle radici, della mia nonna.